19 Gennaio 2012

Chiaro di Luna

By admin

 

 

Racconto pubblicato da “La Battana”, gruppo Edit, 2011, nel mese di dicembre.

Dalla panchina dove sedeva, Igor poteva osservare lo skyline newyorkese che aveva visto in decine di film, fin dall’infanzia, nelle tante fotografie e sulle cartoline attaccate al frigo di sua madre. Era estemporaneo e spiazzante trovarsi lì, a Brooklyn. Una caldissima sera estiva, illuminata da migliaia di luci urbane che facevano sembrare il cielo privo di stelle, nero come una colata di catrame, se non fosse stato per l’immensa, perlacea luna piena che sovrastava le Twin Towers e risplendeva nella notte. Gli occhi stanchi vagavano curiosi in direzione dei grandi grattacieli di Manhattan, con lo stupore della giovinezza. Viveva a New York da diversi mesi oramai, ma non si era ancora soffermato sul panorama, sulle suggestioni, sulla grandezza di quella immensa città. Ora, seduto lì, da solo, poteva percepire tutto ciò che la metropoli emanava,  riflessa nelle scure acque del fiume Hudson. Gli ultimi tempi sembravano una confusa nebulosa di ricordi, le troppe amare sorprese avevano reso il groviglio inestricabile. Le giornate che si apprestava a vivere erano durissime, faticose e infinite, trascorrevano lente e appesantite dalla nostalgia. Lavorava nei cantieri edili, saliva e scendeva impalcature metalliche con le braccia cariche di secchi di malta. La fatica non si addiceva al suo fisico di diciottenne ancora gracile, come avvolto nello sviluppo di un’adolescenza prolungata. La testa era in un vortice infernale quando saliva troppo in alto, quando il vuoto incombeva sotto ai suoi piedi. Non capiva la lingua che gli altri parlavano, si sforzava di comprendere, di andare ad intuito. Era un estraneo, non conosceva niente. In quei mesi la sua esistenza si era limitata al tragitto tra la casa dello zio e il cantiere, tra Brooklyn e il Queens. Pareva tutto così distante dalla vita precedente, dai ricordi d’infanzia a Fiume, città lontanissima, almeno quanto un pianeta in una remota galassia. Sarebbe stato bello, pensava Igor, sollevarsi dal disgusto del mondo, volare nell’atmosfera e oltre, dove i corpi diventano cristalli che riflettono ogni cosa senza assorbirla. La mente fece un salto nel passato, si rivide bambino nei pomeriggi primaverili, quando a Fiume, sulle rive, arrivavano i pullman delle scolaresche e la città si riempiva di ragazzini urlanti e indisciplinati che facevano impazzire le maestre. Lui prendeva l’aquilone che suo padre gli aveva comperato all’emporio e lo faceva volteggiare nell’aria, sopra il mare. Un giorno, lo ricordava ancora, una bambina dai capelli biondi ne fu rapita, inseguì come in estasi l’aquilone che si stava abbassando, ma quando volle prenderlo Igor gridò: “Lascialo stare! Non è tuo!”. La bambina si scostò immediatamente e con voce impaurita disse: “Scusa”. Allora lui la incalzò: “Di chi è questo aquilone?”,

“Tuo”, gli rispose lei e se ne andò. Igor rimase con l’aquilone in mano a guardarla allontanarsi e pensò che era bellissima.

Che strani percorsi poteva seguire la mente, a ritroso nel tempo, senza una logica che li legasse tra loro, che nell’insieme potesse renderli compositi e lineari. In quel frangente c’erano solo sprazzi, immagini distaccate, diapositive mentali della vita passata. Ricordava le divise di suo padre appese nell’armadio, i compiti da correggere sulla scrivania della madre, la casa sempre pulita e ordinata. Igor studiava sul tavolo di formica bianca della cucina, in un’ampia stanza illuminata da una grande finestra che dava sul giardino. Le tendine verde acqua trasparenti filtravano la luce del sole pomeridiano, disegnavano forme bizzarre sulla superficie bianca del tavolo che lui tentava di identificare. Amava stare in cucina, c’era nel pomeriggio l’odore pulito del detersivo, dopo che gli stufati e le minestre erano stati consumati. Sua madre lavava i piatti nell’acquaio di marmo sotto la finestra. A volte gettava lo sguardo distratto fuori nel giardino, con aria assorta, canticchiando qualche motivetto ascoltato alla radio. La vita tranquilla di Igor non subiva nessun mutamento repentino, nulla turbava le consuetudini, ogni cosa era sempre al suo posto. Al mattino la mamma lo svegliava per fare colazione, poi di corsa a scuola con la pesante cartella e un sacchetto di plastica con dentro la merenda. Igor studiava in un edificio asburgico ottocentesco, in pieno centro. Era imponente,  gli infiniti ed intricati corridoi gli conferivano un’aria sinistra. Le aule erano spaziose, avevano grandi finestre con i doppi serramenti logori che facevano filtrare l’umidità. Ricordava soprattutto il laboratorio di scienze, con tutte le attrezzature che lo appassionavano. Pensava che da grande avrebbe fatto il biologo e tutta la sua vita si sarebbe svolta tra microscopi ottici, vetrini e reagenti. Questo pensiero l’avrebbe consolato alle superiori, quando la timidezza e l’aspetto dimesso sarebbero stati un problema. All’una si tornava a casa, sempre di corsa, il pranzo era pronto dalla sera prima.  Igor e la mamma mangiavano assieme, dopo che lei rientrava dalla scuola dove faceva l’insegnante. L’assenza del padre era consolante, stare da solo con la madre lo rilassava, lo rendeva felice. Nel pomeriggio c’erano le lezioni di pianoforte a casa della signorina Weiss, tanto avvenente quanto dispotica. Poi c’erano le visite dalla nonna materna che gli preparava una bella tazza di cioccolato da sorseggiare nel piccolo tinello, con la stufa di maiolica azzurra sempre accesa e i mobili che odoravano di cera, coperti da centrini inamidati. I compiti dovevano essere fatti prima di cena, quando a casa rientrava il padre. L’uomo tornava alle sette in punto, le chiavi che giravano nella serratura mettevano inquietudine a Igor. Indossava la divisa, scarpe lucidissime e portava una valigetta nera. Era tenente colonnello dell’esercito jugoslavo, un uomo ordinato, pulito, preciso, rispettoso delle sue responsabilità e del decoro. In città lo conoscevano tutti, quando la domenica si andava al bar, la cortesia dimostratagli dalla gente era quasi reverenza. Viveva a Fiume da molti anni, ma era di Belgrado. Il matrimonio tra lui e sua madre, tra un serbo ed una fiumana di lingua italiana, era quanto di più politicamente corretto si potesse concepire nella Jugoslavia di allora. Il comunismo avrebbe superato gli ostacoli culturali e linguistici, ogni differenza di mentalità, ogni divisione. Entrambi i suoi genitori ci credevano, entrambi erano comunisti, entrambi amavano Tito ela Jugoslavia.Nellaloro mente si stava fondando un nuovo mondo, una civiltà della tolleranza e della fratellanza reciproche, che questi pionieri costruivano pezzo per pezzo. L’euforia dei primi tempi forse non c’era più quando Igor iniziò a capire le cose, ma il legame tra i suoi genitori gli appariva sempre solido e l’appartenenza ad un’unica Patria imprescindibile. In realtà l’illusione dell’unicità di una nuova stirpe creata su base ideologica, senza tenere conto della storia e dei caratteri popolari, scricchiolava da tantissimo tempo, le lacerazioni erano piuttosto evidenti, tuttavia un irriducibile come suo padre non ne risentiva più di tanto. Il sogno di uno stato socialista, guidato da un unico partito comunista, lontano dai corrotti modelli occidentali dell’ingannevole pluralismo, ma anche dalla chiusura egemonica del blocco sovietico, non poteva assolutamente naufragare. La morte di Tito fu sì un duro colpo, però l’ideale doveva sopravvivere al suo creatore. Questi erano i principi che ad Igor furono insegnati dal padre, questi erano gli unici argomenti di conversazione tra loro. Si ragionava solo per massimi sistemi, lo scopo era creare degli individui indottrinati e rigidi nel rispetto delle regole di un grande sistema giudicato infallibile e giusto. Il risalto dei sentimenti individuali sarebbe stato un elemento di turbamento, un elemento fuorviante. Con la madre il rapporto era completamente diverso, non parlavano mai di politica o di questioni sociali, lei lo comprendeva intimamente e capiva la sua assoluta estraneità infantile a quel tipo di discorso. Davanti a suo padre non si doveva discutere di questioni personali; i problemi emotivi di un bambino e di un adolescente lui li avrebbe trovati poco opportuni. Per fortuna erano soli quasi tutto il giorno e il carattere timido ed introverso del ragazzo trovava conforto nella comprensione della madre. Per tutti gli anni dell’infanzia gli eventi seguirono un loro percorso prestabilito, si intuivano dei mutamenti nella società circostante, essi però terminavano fuori dalla porta di casa. In effetti nemmeno dagli amici di famiglia si sentivano troppo questi cambiamenti, nonostante la crisi economica e il decadimento generale del sistema stringessero come una morsa. Esistevano le classi sociali che suo padre negava strenuamente, forse erano meno composite e meno impermeabili di quelle occidentali, ma Igor capì fin dalla prima adolescenza che loro erano molto simili ai borghesi tanto ostinatamente disprezzati. Non sapeva che tra breve tutto si sarebbe dissolto, però alle superiori il suo mondo cominciò a sgretolarsi sotto il peso della crisi dei valori e di nuovi sentimenti nazionalistici mai conosciuti prima. Lui era un “meticcio”, il risultato di decenni di integrazione anche forzata, un elemento di disturbo per i mutamenti in atto.

I cambiamenti esplosero come una bomba nucleare nel 1989, quando a Berlino la gente iniziò a prendere il muro della divisione a picconate. Suo padre sedeva sulla poltrona damascata, davanti al vecchio televisore Gorenje che trasmetteva incessantemente le immagini sensazionali del cambiamento epocale. Man mano che nella notte i pezzi del muro venivano giù e la gente festeggiava abbracciandosi, lui fissava lo schermo sempre più annientato e ammutolito. Sapeva che la caduta del Blocco non si sarebbe limitata alla Germania divisa in due, ma avrebbe eroso i sistemi di tutti i Paesi europei satelliti, fino a far vacillare Mosca. La Jugoslavia viveva la sua unicità all’esterno di certi meccanismi, però quel muro non stava mandando in frantumi solo il Patto di Varsavia, stava decretando la vittoria occidentale su tutti i paesi comunisti. Si contorceva le mani il padre di Igor, mentre i giornalisti annunciavano in tutte le lingue la distruzione del “Muro della Vergogna”. Poi, preso dall’ira, lisciava con  mani tremanti e nervose i capelli spettinati. Quando sua madre provò a convincerlo che era ora di dormire, le ringhiò contro e la mandò via. Lei si chiuse nella stanza da letto e nel silenzio della notte Igor la udì singhiozzare. Il tempo divenne un oscuro demone portatore di terremoti politici, di confini in bilico, di ideologie spezzate e incenerite. Si videro le stelle rosse di metallo cadere dai palazzi del potere e la gente urlante ballarci sopra, come in una danza rituale di liberazione. I carri armati rossi non si sarebbero più visti a Budapest, come in nessun’altra capitale europea. Furono proprio gli Ungheresi a dare il via al cambiamento, nell’estate appena finita. In molti non vollero credere alla fine della Cortina di Ferro, il padre di Igor si ostinava a ribadire che l’evento non poteva riguardare la Jugoslavia. Loro sarebbero sopravvissuti, loro erano diversi.

L’illusione non durò molto, i fermenti nazionalistici iniziarono a farsi reali, uscirono dalle frange nascoste e dai salotti, per riversarsi sulle strade e nelle case della gente. Penetrarono con facilità nelle coscienze deluse e stanche, affievolite dalla fine rovinosa del sistema che si era lasciato il vuoto dietro. La voragine creatasi nella società, il nulla insidioso e devastante, giunto al culmine di una crisi economica gigantesca, portò al collasso le istituzioni. Il primo effetto reale, la secessione della Slovenia dalla Federazione Jugoslava, lo gettò nello sconforto. Questo fatto sconvolgente per la maggior parte degli allineati al regime come lui e liberatorio per i suoi detrattori, scatenò un effetto domino che in breve tempo cominciò ad insanguinare la Nazione, smembrandola.

Il padre di Igor fu allarmato appena la Slovenia ribelle proclamò l’indipendenza; dalla sua caserma a Fiume partirono mezzi e uomini, imbarcatisi sulle navi e via terra. Il clima era teso come una corda, lui come quasi tutti i vertici militari concordava per una reazione immediata verso i ribelli. Si crearono vari gruppi di ufficiali, i falchi e le colombe non si distinguevano, provocandogli una sempre maggiore confusione. Da Belgrado le notizie giungevano contraddittorie, gli ordini seguivano gli avvenimenti con un imperdonabile ritardo. Chi si udiva con chiarezza, con messaggi inequivocabili, erano alcuni leader politici, strenui difensori di una sorpassata idea panslavista che vedeva in Belgrado e nella Serbia il suo fulcro. Al padre di Igor sembrarono i salvatori della Nazione, se gli avessero chiesto di immolarsi non avrebbe esitato. Era convinto di appartenere ad un grande esercito, forte e ben addestrato: l’armata jugoslava. Loro non si sarebbero fatti intimorire da pochi sparuti gruppi di sobillatori. Negli anni trascorsi ad autocelebrarsi, a non voler guardare al resto del mondo, ai cambiamenti, alle nuove guerre, non aveva visto che tutto era mutato. L’armata jugoslava fu definita da un capo dei ribelli “la tigre di cartone”, un finto colosso che non avrebbe retto agli urti dei popoli. Il militare sloveno che guidò la guerra d’indipendenza contro la Federazione e l’esercito, un graduato di poco conto che lui avrebbe ridicolizzato, lo stava battendo moralmente e militarmente. Dopo attimi di confusione e di scontri, l’idolatrata armata iniziò a ritirarsi dalla Slovenia. Il giovane ufficiale aveva vinto, era riuscito a battere la “tigre” con abilità più da comunicatore mediatico che da militare. Quando anche la Croazia scelse la via dell’indipendenza, i fatti precipitarono. Fu in quel preciso frangente che le vite di Igor e della sua famiglia mutarono radicalmente. Suo padre era sempre più assente, il poco tempo che trascorreva a casa lo impegnava per torturare la moglie con offese e accuse senza senso. La riteneva una traditrice degli ideali solo perché non era serba, perché si sentiva confusa come tutti gli altri. I croati stavano tradendo la Jugoslavia, lo stavano facendo senza remore. Andavano puniti, bisognava iniziare dando l’esempio in casa. Igor, su precisa richiesta della madre, rincasava molto poco. Dopo la scuola andava dalla nonna e rimaneva lì. Lei non lo voleva in casa, temeva che potesse subire delle violenze, lo proteggeva evitando di farlo incontrare con il padre. Ad Igor la situazione pareva surreale, non capiva cosa stesse accadendo alla famiglia, perché si stesse sbriciolando dall’interno a causa di fattori esterni fuori dal loro controllo. Ciò che lo angosciava di più era sapere che sua madre stava sola in casa con quell’uomo. Da qualche tempo non lo sentiva più come un padre, ma come una minaccia incombente che poteva farle del male. Un giorno la situazione precipitò, accadde in un pomeriggio soleggiato a casa della nonna. Igor stava studiando nel tinello quando sua madre irruppe in casa. Era tutta in disordine, aveva un vestito a fiori lacerato su una spalla. Indossava degli occhiali scuri, stringeva a sé la borsetta, come se contenesse qualcosa di prezioso. Ansimava e non riusciva a parlare. La fecero sedere e la nonna corse in cucina a prepararle un tè. Igor non sapeva cosa dire, la stava accarezzando lievemente quando, con un gesto d’affetto, le tolse gli occhiali e scansò i capelli dal viso. Solo in quel momento si accorse della tragedia che stavano vivendo. Il volto della donna era tumefatto, dal naso fuoriusciva del sangue rappreso. Guardando verso la scollatura del vestito, un rivolo rosso si era attaccato alla stoffa, mentre la pelle del collo pareva lesionata, come se delle mani forti avessero provato a strangolarla.

– Maledetto bastardo! Questa volta è troppo, non gliela faccio passare liscia!-, ringhiò rabbioso, con un nodo alla gola che lo stava strozzando.

– Non lo dire Igor, non lo pensare. Tuo padre è impazzito, non sa più quello che fa. Ti devi allontanare dalla famiglia, sto provvedendo da sola per farti andare via-, disse con tono angosciato, cercando di trovare altre parole, altre frasi per calmarlo, ma non ci riusciva.

– No, non me ne vado, lo voglio affrontare quel vigliacco!-.

– Tu non lo sai ancora di cosa è capace tuo padre, non lo sai-, termino singhiozzando.

La nonna assisteva alla scena ammutolita, ma non interveniva. Era contraria a quel matrimonio, la mamma lo sapeva, lo sapevano tutti. Per lei che aveva vissuto la guerra, le nefandezze, assistendo ad un esodo forzato che aveva mutilato esistenze e luoghi, alla caccia alle streghe a guerra finita, alla miseria, alle umiliazioni di quello che definiva “padrone jugoslavo”, la scelta della figlia appariva inconcepibile e forse anche imperdonabile. Non l’avrebbe consolata nemmeno in quel momento, non l’avrebbe mai sostenuta. L’unica cosa che le premeva era aiutare il nipote, ed in questo si sarebbe adoperata.

– Dove vorresti mandare tuo figlio?-, disse gelida ad un certo punto.

– Qui nella borsa ho i miei risparmi, li ho ritirati alla banca-, rispose con un filo di voce.

– Cosa pensi di farci?-.

– Li darò a Igor, prenderà un treno, magari per Zagabria. Ho degli amici dove potrebbe alloggiare, almeno per un po’-.

– Sei la solita incosciente-.

– Mamma per l’amor di Dio, non puoi superare per un momento la tua ostilità nei miei confronti per aiutarmi a trovare una soluzione? Senza i tuoi soliti giudizi sprezzanti?-.

– Pensa un pò, adesso lo nomini Iddio, fai il suo nome, tu che ti sei rifiutata persino di battezzare mio nipote!-.

– Basta, basta!-, gridò esasperata. – Andiamocene di qui Igor, non ha senso rimanere-.

– No, aspettate un momento-, si voltò e andò nella sua stanza. Dopo qualche minuto ritornò nel tinello, in mano teneva un foglio di carta, lo diede alla figlia.

– Ma questo è l’indirizzo di Franco, a New York-.

– Esatto, ed è lì che Igor deve andare, da tuo fratello-.

– Perché così lontano? L’America è dall’altra parte del mondo ed Igor ha solo diciott’anni-, provò a dire.

– Vorresti farlo restare qui? Ora che è scoppiata la guerra? Ora che ha l’età per andarci? Con quel pazzo che ti sei sposata, quel degenerato che non esiterebbe ad ammazzarvi entrambi per le sue convinzioni? Igor non può pagare per i tuoi sbagli, non può morire per le vostre idee. Franco ha trovato la libertà in America, un nuovo inizio. Ho accettato che se ne andasse, ho pianto e sofferto in questi anni senza mai vederlo. Una madre deve fare dei sacrifici per il bene dei suoi figli. Io l’ho fatto anni fa, tu devi farlo adesso-.

– Ci devo pensare, adesso non so, sono confusa-.

Uscirono di casa in silenzio, scendendo le scale Igor vide il volto sofferente della madre solcato dalle lacrime. Non disse niente, ma si sentiva profondamente ferito. Parlavano della sua vita, del suo destino, senza nemmeno interpellarlo, senza chiedergli cosa ne pensasse. Non sarebbe andato in America dallo zio sconosciuto, non ci pensava proprio, in quel momento però non voleva nemmeno parlarne.

– Passiamo per casa, devi prendere un po’ di vestiti puliti, poi torni a dormire qui dalla nonna-.

– Voglio rimanere a casa, mi sono stancato di nascondermi-.

– No Igor, non devi correre alcun rischio-.

Presero il filobus ed in pochi minuti giunsero a casa. Il padre non c’era, l’appartamento pareva messo a soqquadro.

– Ma cos’è accaduto?-.

– Sembrava una furia prima, mi ha picchiata e buttato la casa per aria. Facciamo subito i tuoi bagagli, prima che torni-.

Iniziarono a mettere nelle valigie abiti puliti, effetti personali, cassette musicali, libri, fotografie. Non erano i bagagli per qualche giorno, ma per un lungo periodo.

La chiave girò nella serratura della porta d’ingresso e si udirono dei passi pesanti nel corridoio. Ad Igor e sua madre il sangue si gelò nelle vene. Sulla porta della stanza apparve la figura scura del padre, pareva il fantasma di se stesso. I capelli in disordine, la barba trascurata, i vestiti sudici. L’odore di alcool che emanava era pungente, lo sentivano anche a distanza. Negli occhi c’era qualcosa di inumano, di corrotto.

– Eccola qua la mia bella famiglia di traditori, di italo-croati, vermi viscidi che strisciano lungo le strade di questa dannata città-.

– Per carità non aggredirci, non farci del male-, disse lei impaurita, cercando di fare scudo ad Igor con il corpo. Lui la raggiunse in un baleno, come un leone sulla preda. La strattonò per terra, tirandola per i capelli e prendendola a calci. Igor si sentì paralizzato per un momento, non gli sembrava una scena reale ma un film horror. Poi obbligò se stesso a reagire e si lanciò come una furia sul padre. Finirono tutti e tre sul tappeto bianco che sua madre curava quotidianamente, perché era un regalo prezioso che zio Franco aveva inviato dall’America per il suo matrimonio. L’uomo si divincolò dalla presa del figlio e lo allontanò con un calcio. Si ritrovarono uno di fronte all’altro, si alzarono all’unisono. Erano nemici, non c’erano dubbi, il legame di sangue non esisteva più. Si scontrarono, cercando di colpirsi al volto. Dopo qualche istante di confronto, suo padre prese il sopravvento e assestò ad Igor un violento pugno in faccia. Il giovane perse l’equilibrio e cadde urtando di striscio con la testa il bordo di legno del letto. Si fece tutto buio, come quando al cinema si spengono le luci prima della proiezione. Dopo un periodo impossibile da quantificare, finalmente si riprese e aprì gli occhi, aveva la sensazione di esser rimasto per terra un’eternità. Sua madre era accanto a lui, col fazzoletto puliva il tappeto bianco dal pelo lungo, sporcato col sangue che le era fuoriuscito dal naso dopo il pestaggio. Provò ad alzarsi, il bernoccolo in testa gli faceva un male cane.

– Dov’è andato?-.

– E’ andato via, per sempre. Mi ha detto che andava dai suoi “fratelli”, dai militari che combattono a nord-.

– Non tornerà più qui?-.

– No, non tornerà mai più-.

Si fecero silenziosi, fissavano entrambi un punto imprecisato. Avrebbero dovuto sentirsi rasserenati, contenti di essersi liberati di una grave minaccia, ma non era possibile gioirne. Quello era il marito, il padre, non un estraneo.

– Te ne devi andare Igor. Ho molte conoscenze nei Consolati e anche qualcuna all’Ambasciata americana. Posso farti avere il visto per l’America, avrai l’aiuto di zio Franco. Lo devo fare in fretta però, tra breve le mie conoscenze non avranno più alcun valore, cambierà tutto-.

– Ma perché dovrei andarmene? Lui non c’è più, di cosa dobbiamo preoccuparci? Possiamo vivere qui assieme, solo io e te-.

– Allora non capisci?-, si voltò verso di lui e gli prese il viso tra le mani. – La nonna ha ragione, questo posto, questo Paese che si sta smembrando, sarà a breve un inferno. Tu hai l’età per andare in guerra, non esiteranno nemmeno per un momento a mandarti al fronte. Non devi la tua vita a questa nuova nazione che ci stanno imponendo e non la devi nemmeno alle ceneri di quella che c’era prima-.

– Non voglio andarmene mamma-, l’abbracciò forte e le lacrime gli uscirono forzatamente dagli occhi chiusi, serrati.

– Starai bene in America, tutti vivono bene laggiù. Zio Franco dice meraviglie di New York. Poi se le cose cambieranno, se si normalizzeranno, potrai tornare. Va bene tesoro?-.

Igor non riusciva a rispondere, non voleva farlo. Si rifiutava persino di pensare. Trovava tutto illogico, assurdamente doloroso. Forse sua madre e la nonna avevano ragione, bisognava lasciare la città, il Paese, anche il continente. Era mai possibile che in tutti quegli anni di indottrinamento, di paure paranoiche per il possibile attacco dell’occidente al loro paradiso socialista, dei rapporti fraterni tanto sbandierati tra i popoli della Jugoslavia, si erano formate delle frange così feroci,  così desiderose di strappare ogni legame, anche quelli privati, che legavano la gente? Non aveva più senso farsi queste domande o altre, l’unica cosa chiara pareva questa: abbandonare la nave prima che colasse a picco, verso l’abisso.

Così lui e la madre prepararono i bagagli. Andarono in tutti gli uffici preposti al rilascio dei documenti necessari per andare negli Stati Uniti. Acquistarono il biglietto aereo, sbrigato tutte le procedure burocratiche, incluso il ritiro dalla scuola a pochi mesi dal diploma. La nonna nel frattempo  aveva già inviato una dozzina di telegrammi pieni di raccomandazioni al figlio. Il giorno della partenza arrivò così in fretta che ad Igor non pareva vero, non gli sembrava che stesse accadendo a lui. Partirono con la macchina in tarda mattinata, diretti all’aeroporto di Lubiana. L’aereo sarebbe partito nel pomeriggio. La nonna era voluta venire con loro, nonostante i problemi di artrosi le rendessero doloroso ogni viaggio. Sua madre guidava in silenzio, non aveva acceso la radio come faceva di solito. Nessuno in fondo aveva voglia di parlare e nemmeno di ascoltare. All’aeroporto, dopo aver sbrigato le pratiche d’imbarco, attesero l’annuncio della partenza nel bar vetrato da dove si vedevano gli aerei.

– Come farò da solo in America?-, disse Igor dopo aver fissato una decina di minuti l’aranciata che aveva davanti senza assaggiarla.

– Non sarai solo, ci sarà lo zio Franco. Gli ho mandato i telegrammi e gli scriverò ancora, si occuperà di te, non devi temere-, disse la nonna accarezzandogli il volto.

La mamma non parlava, era pallidissima e aveva gli occhi assenti. Non aveva raccontato ad Igor tutta la verità, non l’aveva raccontata a nessuno. Suo padre non se ne era andato di casa prima di aver pronunciato l’ultima, terribile, minaccia. In quel assurdo pomeriggio nella stanza da letto, dopo che il figlio aveva perso coscienza, lui la sollevò da terra e la inchiodò all’armadio. Le teneva la mano sul collo, pareva una morsa, lei quasi non respirava. Poi, con occhi inumani e privi di vita, simili a quelli degli squali, le si avvicinò tanto da schiacciarla.

– Se mi capiterà un altro scontro con tuo figlio sarà al fronte, da uomo a uomo, da soldato a soldato. Sappi che non esiterò nemmeno un momento, lo ammazzerò senza pietà-.

– Igor è anche tuo figlio-, disse lei con un filo di voce.

– No, cagna italiana, il figlio è solo tuo-.

La lasciò libera e se ne andò. Lei cadde per terra, guardò l’uomo che aveva amato andarsene senza più voltarsi.

Il rumore dell’altoparlante riportò tutti alla realtà. Si alzarono dal tavolo come intorpiditi. Igor abbracciò forte la mamma prima di andare verso il suo destino, tanto che fu lei a sciogliere l’abbraccio. Chi partiva con lui sembrava felice, tutti gli europei hanno un’espressione felice quando vanno in America. Igor sentiva invece la morte nel cuore.

Sapeva che l’adolescenza prolungata era finita, sapeva che d’ora in poi tutto sarebbe stato in salita, sapeva che si sarebbe dovuto arrangiare da solo, che per ogni sua scelta corrispondeva una piccola ipoteca sulla vita.

Ed ora era lì, su quella panchina di legno verniciato da poco, in quella notte di mille luci nella città che gli europei sognano sempre. La città delle cartoline conservate dalla madre, la città delle tante opportunità dove tutti sembrano felici e benestanti.

Per lui ogni cosa pareva insignificante, niente era luminoso o sfavillante. Lo zio Franco non era un uomo ricco, non possedeva la villa con piscina dei film. Era solo un muratore, un bravissimo muratore s’intende, apprezzato e ben pagato, ma non viveva nell’Eden che la nonna credeva. L’unica cosa che ad Igor pareva luminosa, brillante, favolosa, era la luna piena su Manhattan. Da piccolo la guardava delle ore, nel giardino di casa, a Fiume. Si arrampicava sul ciliegio, fino in alto, perché provava a toccarla. Sua madre lo osservava da sotto e, tra una risata ed un rimprovero, gli diceva che un giorno l’avrebbe avuta la luna. Tempi lontani quelli, tempi remoti.

Igor la fissava, non riusciva a distogliere lo sguardo nemmeno quando le lacrime grondarono dagli occhi. Si chiedeva con dolore e frustrazione se anche sua madre a Fiume, nel giardino di casa, la stesse guardando, si chiedeva se stesse pensando a quel figlio lontano che viveva in America, dove tutti erano felici.

                                                         F I N E