15 Novembre 2019

Medicina officinale: dal Medioevo al Rinascimento

By admin

Nel mondo c’è un ordine naturale di farmacie, poiché tutti i prati e i pascoli, tutte le montagne e colline sono farmacie […]  nella natura tutto il mondo è una farmacia che non possiede neppure un tetto!

Paracelso, 1493 – 1541

Il Medioevo era visto negativamente dagli umanisti quattro- cinquecenteschi, impegnati a rivendicare la novità della loro cultura. I secoli della storia europea seguiti alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente venivano visti come un’interruzione della tradizione classica, come un lungo periodo di tenebre che sarebbe stato superato da un approccio culturale nuovo, volto alla riscoperta del classicismo. Nei secoli successivi questa visione negativa sarà rimarcata per effetto della Riforma protestante e, in particolar modo, per effetto dell’Illuminismo che, nel XVIII secolo, adotterà il medesimo punto di vista negativo in chiave laica, elaborando l’immagine della “notte dei tempi”. Il Medioevo per gli illuministi era un’epoca dominata dalla barbarie, dall’irrazionalità e dalla superstizione religiosa. Tale visione ha plasmato anche la storiografia ottocentesca ed ha condizionato la visione comune moderna. Questa visione però trascura gli aspetti indiscutibilmente positivi di un periodo lungo, complesso e articolato come il Medioevo; periodo che ha posto le basi di un nuovo pensiero occidentale di matrice cristiana, ha visto nascere la cultura monastica di conservazione e diffusione della sapienza e la fondazione delle prime Università e Scuole di pensiero (come la Scuola di Salerno ad esempio), oltre alla nascita dei Comuni nell’Italia centro-settentrionale e di nuove rotte del commercio, in particolare nel Basso Medioevo. Il lungo periodo della storia occidentale che va dalla disgregazione del mondo antico al configurarsi di una società di tipo urbano, pare particolarmente evidente nell’Italia tra il XII e il XIII secolo. Questo lento declino del sistema sociale romano, assieme agli insediamenti delle popolazioni barbariche nell’Occidente europeo, avevano prodotto una società frammentata, minacciata da mille insicurezze e quasi priva di centri d’organizzazione civile ed economica.

Dal IV all’VIII secolo i violenti conflitti e le calamità naturali si erano accompagnati a un arretramento generale delle coltivazioni, mentre la società, in tutti i suoi strati, si era ripiegata in una mera lotta per la sussistenza. Nei regni barbarici vigeva una società agraria chiusa, con scambi economici molto limitati, e contraddistinta da una frantumazione dei poteri e dai conflitti in seno alle aristocrazie militari degli invasori e i residui dell’antica aristocrazia romana. Gli unici luoghi che svolgevano un’iniziativa culturale e progettavano rapporti più complessi erano i grandi centri monastici.

La medicina monastica

Per affrontare, seppur brevemente, l’argomento del Monachesimo cristiano, bisogna risalire ai primi secoli dopo Cristo e alla figura di San Pacomio, religioso egiziano fondatore della prima abbazia. La prima “regola” monastica dunque arriva da Oriente, dove il santo predicò la preghiera, la contemplazione, la carità, il reciproco servizio, il lavoro e l’assistenza ai malati dentro e fuori le mura monastiche. Con il passare del tempo compariranno anche in Occidente i primi monasteri che proseguiranno l’opera di assistenza dei bisognosi e malati. Si istituiranno gli “Hospitium” per accogliere i pellegrini, in un momento storico turbolento e incerto per l’Europa, accanto all’orto dei semplici (con le piante medicinali) e alle farmacie. Questi spazi saranno istituiti all’interno dei monasteri a seguito delle disposizioni del Concilio di Nicea (325) e saranno chiamati “Xenodochi” (ospizi gratuiti per i pellegrini); sarà anche obbligatoria la presenza di un monaco sia per l’accoglienza che per l’assistenza medica.

Il monastero contemplerà un locale adibito a infermeria – separato dal corpo centrale per evitare la diffusione di eventuali infezioni –, dove gli interni del monastero ma anche i pellegrini saranno curati. L’Hortus simplicium o sanitatis, l’orto dei semplici, diventa così il luogo dove i monaci coltivano le piante officinali utilizzate per le cure nell’infermeria. L’erboristeria diventa una scienza anche presso gli ordini monacali, in quanto i monaci sono in grado di selezionare le piante e di estrarne il medicamento, di valutarne l’indicazione e il dosaggio e di trovare anche le associazioni tra i rimedi per compilare le “ricette galeniche” e conservare gli estratti nelle farmacie. Una svolta radicale al monachesimo sarà data da San Benedetto da Norcia (480-547), fondatore dell’ordine benedettino. Trasferitosi a Montecassino dopo aver studiato a Roma e vissuto a Subiaco, costruì il più grande monastero dell’epoca. La sua celebre “Regula” sarà la pietra miliare dei religiosi nei secoli successivi, tanto che si può a buon diritto considerarlo il padre del monachesimo occidentale. Anch’egli promosse la medicina, per dare sollievo e assistenza ai malati, in un connubio di preghiera e assistenza ai sofferenti, facendo dei monasteri centri medici veri e propri che favorirono il progresso scientifico. Gran parte del patrimonio culturale che ci è stato trasmesso dai benedettini è merito dell’attività intellettuale che i monaci esercitarono in rispetto della Regola. Infatti, si dedicarono allo studio e alla traduzione di testi antichi, furono abili miniaturisti e, su tutti i monasteri dell’epoca, primeggiò Montecassino dove l’opera e l’esempio di San Benedetto gettarono le basi della civiltà cristiana occidentale.

Nel monastero si tradussero anche trattati di medicina araba non conosciuti ai tempi di Galeno, diffondendo in tal modo nuove conoscenze e contribuendo a dare impulso alla medicina. Fondamentale fu l’incontro tra la medicina monastica di Montecassino e la Scuola medica di Salerno, integratesi a vicenda, sia come scambio di conoscenze che di insegnanti. Infatti, di grande importanza tra i benedettini sarà il “Regimen sanitatis”, trattato fondamentale della Scuola medica salernitana. Un ruolo essenziale nello sviluppo della storia medica e della conoscenza e uso delle piante medicinali sarà ricoperto da una straordinaria figura femminile: Santa Ildegarda di Bingen (1098 – 1179). Monaca benedettina e intellettuale poliedrica (mistica, compositrice, poetessa, filosofa), sarà il punto di riferimento della medicina monastica medievale. Oltre duecento sono le piante officinali contenute in una sua celebre dissertazione sulla conoscenza della natura: la “Physica”. Nei suoi brevi capitoli le piante sono analizzate in base alla teoria dei “quattro elementi” e alla teoria umorale di Ippocrate e Galeno. Ildegarda riconduce la conoscenza degli umori e delle piante a due aspetti fondamentali: calore e freddo. Queste qualità opposte sono necessarie per un riequilibrio delle funzioni vitali seguendo la regola del contrario e del simile, sempre d’ispirazione ippocratica. Le piante dunque possono essere utilizzate in modo eteropatico o allopatico (principio ippocratico fondato sui contrari) e omeopatico (principio fondato sul concetto di similitudine).

Tanti saranno gli ordini monastici, maschili e femminili, che si diffonderanno in Europa e ogni convento o monastero di un certo riguardo avrà il proprio “orto dei semplici” dove saranno coltivate numerose erbe curative. Le piante coltivate nei giardini dei monasteri e conventi non erano rare o insolite, bensì delle comuni specie che si potevano trovare anche allo stato brado. Oggi più che di piante mediche diremmo che si trattava di piante officinali o aromatiche: l’aglio, il basilico, la camomilla, il cumino, l’elicriso, il finocchio selvatico, il ginepro, la lavanda, la liquirizia, la maggiorana, la malva, il mandorlo, la melissa, la menta, l’origano, il prezzemolo, il rosmarino, la ruta, la salvia e il timo. Ai monaci era vietato praticare l’arte medica fuori dal convento a scopo di lucro e venne loro vietata la pratica chirurgica. Ciò non toglie che tanti sovrani illuminati apprezzarono l’importanza della ricerca svoltasi all’interno delle strutture monastiche, come lo dimostrano gli editti che imponevano ai monasteri di dotarsi dell’hortus sanitatis.

La scuola di Salerno

Un balzo nella conoscenza e nell’impiego delle piante medicinali arriva in Occidente dalla civiltà araba. I medici dell’area mediorientale avevano tradotto e diffuso le opere di Galeno, iniziando uno studio sistematico delle piante officinali. Diffusero le conoscenze e i metodi di preparazione dei rimedi mediante testi didattici contenenti disegni finemente miniati e piante essiccate: gli Erbari che, accanto ai Bestiari e Lapidari, rappresentarono un mirabile strumento per la diffusione della cultura. La terapia nella medicina araba si basava su un vasto uso di droghe classiche con l’aggiunta di molte nuove, quali la canfora, la noce moscata e la noce vomica, il rabarbaro e il tamarindo. Sarà nella Scuola medica salernitana, sviluppatasi tra il X e il XIII secolo, che la cultura classica occidentale si fonderà con la scienza araba. La Scuola di Salerno è stata a buon diritto famosa come la prima Università dell’Europa medievale e come uno dei primi e più cospicui centri di medicina. Grande fu il valore scientifico e sanitario al quale la Scuola pervenne, tanto da essere definita un esempio mirabile di sincretismo mediterraneo, grazie all’originaria e singolare fusione di culture: ebraica, araba, greca e latina. Questa mirabile fusione è racchiusa in un’opera fondamentale: il “Regimen Sanitatis salernitanum”. La Scuola di Salerno ebbe una tale importanza nella sua epoca che Federico II, nel 1224, ordinò che nessuno esercitasse la medicina a Napoli e in Sicilia senza avervi prima superato un esame. Dunque, il primo nucleo della cultura della scuola medica è rappresentato dal Regimen Sanitatis (l’autore è anonimo). Nel testo si contemplano diciotto semplici fondamentali – dove i “semplici” sono le erbe medicinali pure, non i composti –, descritti minuziosamente: malva, menta, salvia, ruta, cipolla, senape, viola, ortica, issopo, cerfoglio, enula campana, menta puleggio, nasturzio, celidonia, salice, croco, porro e pepe nero. Alla fine del XIV secolo nacque a Salerno anche il primo Giardino Botanico del mondo, per opera di Matteo Silvatico; un fatto rivoluzionario per la storia delle piante medicinali, in quanto vennero raccolte in un unico luogo dove era possibile coltivarle e studiarne l’impiego terapeutico. Matteo Silvatico scrisse il trattato “Opus Pandectarum”, apparso tra il 1309 e il 1316, scritto espressamente per i medici e farmacisti, dove sono accuratamente descritte tutte le piante del bacino mediterraneo. Il trattato contempla 487 specie vegetali e, accanto al nome della pianta, si trova l’elenco dei sinonimi in arabo, greco e latino; seguono la descrizione morfologica e le proprietà terapeutiche. Caratterizzato da uno spiccato rigore scientifico, il trattato di Matteo Silvatico sarà un’opera fondamentale per la descrizione e l’elencazione dei semplici vegetali. Dalla Scuola di Salerno escono le prime farmacopee (opere di carattere medico che studiano la preparazione dei farmaci) che troveranno una vasta diffusione in tutta Europa con la nascita della stampa nel 1450. Un altro trattato di particolare rilevanza è l’“Antidotarium Nicolai” di Nicolò Preposito Salernitano. Nel testo sono descritti un gran numero di medicamenti semplici e molti composti, come il miele rosato e l’unguento di altea. In questo trattato le piante medicinali sono descritte minutamente e sono illustrati i metodi di raccolta e di conservazione. Stampata inizialmente a Venezia nel 1471, poi a Roma nel 1476, l’opera può essere considerata di carattere farmacopeico, come ordinato da Federico II nella “Costitutiones” (1231). Il libro fu prescritto ai medici e farmacisti di Napoli e della Sicilia. Alla Scuola di Salerno, a quell’ambiente culturalmente aperto, al laboratorio di conoscenze scientifiche diverse, a partire dal XII secolo si registra l’attività di un nutrito nucleo di donne. Su tutte spicca la capostipite: Trotula de Ruggiero, vissuta nell’XI secolo. A lei sono attribuite tre opere principali, sulle quali sono sorte delle controversie tra gli storici, delle quali due sono trattati medico scientifici: “De passionibus mulierum ante in et post partum” (Sulle malattie delle donne prima e dopo il parto) e “Practica secundum Trotam” (La pratica secondo Trotula); una di cosmesi: “De ornatu mulierum” (Sui cosmetici delle donne). Trotula era considerata una vera autorità nel campo delle malattie femminili e nella cosmesi, le sue pozioni risolvevano numerosi problemi ginecologici che affliggevano le donne. Sapeva restituire la bellezza perduta e, pare, pure la verginità. Seguendo la teoria ippocratica dei “quattro umori” (sangue, flemma, bile gialla e bile nera), Trotula applicò le sue concezioni scientifiche in campo ginecologico, spiegando come i flussi mestruali dipendano dagli umori ma anche dimostrando una conoscenza profonda dell’anatomia femminile.

L’Umanesimo e il rinascimento

Il periodo umanistico-rinascimentale occupa due interi secoli: il Quattrocento e il Cinquecento, preceduto da quel straordinario Trecento che vide lo sviluppo dei Comuni e della grande cultura in Italia, con le figure dei letterati italiani che influenzeranno l’Europa nei secoli successivi. L’epilogo di questo straordinario periodo di rinascita giunge fino ai primi decenni del Seicento, trovando in Tommaso Campanella l’ultima grande figura rinascimentale. Nel periodo umanista si assiste ad un mutamento del pensiero filosofico e, in generale, dell’intera vita dell’uomo, in tutti i suoi aspetti: sociali, politici, morali, letterari, artistici, scientifici e religiosi. Intorno alla metà del Quattrocento il termine humanista indicava gli insegnanti e i cultori di grammatica, retorica, poesia, storia e filosofia morale. Termine poi ricalcato in altri usi, tuttora comuni, quali giurista o artista. Il Quattrocento fu il secolo che attribuì agli studi letterari un grandissimo valore e considerò l’antichità classica, latina e greca, come il punto di riferimento per la cultura generale.

Gli autori latini e greci appaiono come i modelli dai quali attingere, i veri maestri insuperati delle lettere umane. L’Umanesimo è contraddistinto da un nuovo senso dell’uomo e dei suoi problemi, celebrato nella sua dignità come essere straordinario rispetto a tutto l’ordine del cosmo.

Il termine Rinascimento invece si è consolidato nell’Ottocento, divenendo poi il punto di riferimento concettuale di quel grande fenomeno cinquecentesco, squisitamente italiano, in grado di imprimere una svolta alla civiltà occidentale.

Il Rinascimento esaltava la mondanità, il sensualismo, la liberazione dalle autorità; era contraddistinto da una tendenza paganeggiante ai piaceri ma anche dal naturalismo filosofico dei suoi pensatori e da uno straordinario gusto artistico. L’età rinascimentale per lungo tempo è stata considerata la fase di rinascita della cultura, in opposizione al periodo medievale, mediante un recupero della sapienza del mondo antico. Le grandi acquisizioni storiografiche del secolo passato hanno invece dimostrato che il Medioevo è stata un’epoca di grande civiltà pressoché sconosciuta agli storici dell’Ottocento. Per cui la Rinascita non è della civiltà contro l’inciviltà, della cultura contro la barbarie, del sapere contro l’ignoranza: essa è la nascita di un’altra civiltà, di un altro sapere e di un’altra cultura. In pratica si potrebbe affermare che l’Umanesimo e il Rinascimento sono due facce dello stesso fenomeno di rinnovamento culturale, politico, scientifico e sociale. Fondamentale nella diffusione di questo nuovo approccio culturale sarà l’invenzione della stampa che diffonderà in quantità massiccia i libri, creando la “cultura della scrittura” tuttora vigente. Nella cultura rinascimentale troviamo un curioso approccio medico: l’astrologia e la medicina sono fortemente associate (tema questo che approfondirò in seguito affrontando l’alchimia) nel tentativo di fare previsioni su come le forze celesti e divine possano agire sull’uomo. L’universo si compone di corpi celesti e l’uomo è costituito da organi in relazione con le forze del cosmo; i segni dello zodiaco (luoghi del corpo) e i pianeti (energie riferite agli organi) interagiscono analogicamente e simbolicamente con il corpo umano. Quando si indaga sull’origine di questo approccio, ci si imbatte in un concetto ben più vasto e storicamente rilevante riguardante la tradizione magico-esoterica. Gli umanisti presero per autentiche le opere attribuite ai Profeti-Magi Ermete Trismegisto, Zoroastro e Orfeo che plasmeranno una parte consistente del pensiero rinascimentale. La figura di Ermete era un’assimilazione a quella del Dio egizio Toth, inventore di numerose scienze e, in particolare, della scrittura. Fu designato con l’appellativo “Trismegisto” (tre volte grande) e divenne nel tardo Medioevo, ma soprattutto in età umanistico-rinascimentale, una sorta di pagano profeta di Cristo. Le moderne ricerche evidenziano che gli scritti ermetici, fioriti intorno a questa figura in età ellenica, sono composti da diversi autori che si nascondono dietro la maschera del Dio egizio. L’ermetismo si presenta come una dottrina esoterica basata su una “divina rivelazione” di Ermete stesso; le dimostrazioni dell’ermetismo non dovevano dunque essere razionali o frutto di deduzioni logiche, bensì avvenivano tramite una sorta di “iniziazione” misterica. Dell’ermetismo faranno parte, oltre alle filosofie dotte, anche scritti di astrologia, di alchimia, di magia e di scienze occulte che, assieme allo zoroastrismo e all’orfismo, plasmeranno fortemente molti sviluppi speculativi successivi. Le scienze occulte non sono interessate al perché, alla causa dei fenomeni – concetto fondante della filosofia classica e della scienza moderna – ma al singolare e al meraviglioso degli eventi. Infatti, l’astrologia vuole conoscere e predire il futuro al fine di trarne dei vantaggi; con l’alchimia si vuole addirittura trovare il procedimento per produrre l’oro, quindi la ricchezza; con la magia si vogliono dominare le forze della natura. Queste suggestioni del pensiero ermetico avranno un impatto notevole sia sulle classi aristocratiche che su quelle popolari. Queste ultime, infatti, mescoleranno empirismo, religione e magia soprattutto nella creazione di una medicina popolare, adatta alle classi subalterne distanti dall’accesso alla medicina dotta e con metodi riconducibili alla cultura primitiva, in un sistema sociale e familiare in cui la natura e i vecchi (visti come oracoli) costituiscono la fonte e il tramite per la realizzazione di rimedi curativi del corpo e dello spirito. La cultura erboristica popolare inizia soprattutto in questa fase storica, divenendo un “sacrario” di nozioni farmacologiche, in parte note nella nostra epoca, e in parte ancora da scoprire. Prima però è importante prendere in esame la tradizione alchimista – in particolar modo la storia della preparazione di sostanze vegetali e minerali – e i suoi massimi esponenti.

Paracelso e l’alchimia

La scienza, come rappresentata da Galileo e consolidata da Newton, è l’esito finale del processo della rivoluzione scientifica che ha gettato le basi della scienza moderna. L’altra forma di sapere sarà progressivamente combattuta come forma di pseudo-scienza e sapere spurio. Nel periodo quattro-cinquecentesco però il nesso tra filosofia, ermetismo, tradizione cabalistica, magia e astrologia con le teorie empiriche e la nuova idea di sapere, appare molto forte e profondo. Oggi nessuno può negare il rilevante peso che il pensiero magico ed ermetico hanno esercitato anche sugli esponenti della rivoluzione scientifica. Un esempio eclatante è rappresentato da Copernico, astronomo ma anche medico, che giustificherà la centralità del Sole nel cosmo, riferendosi poi a Ermete Trismegisto come al “Sole-Dio visibile”. Ci sono molti altri esempi, come William Harvey – lo scopritore della circolazione sanguigna –, avverso all’idea che gli spiriti governino le operazioni dell’organismo (credenza presente nella medicina antica e in quella popolare) ma, sulla scia ermetica e neoplatonica, sostenitore della teoria che il cuore può considerarsi come principio di vita e il Sole del microcosmo umano. Anche Newton sarà condizionato dal pensiero ermetico e dall’alchimia. Parimenti vi saranno pure i critici, in particolare dell’astrologia: da Galileo a Boyle, da Bacone a Cartesio. Ad ogni modo per tutti gli scienziati (Boyle, Newton, Cartesio, Galileo, Hooke, Borelli) il rigore logico nei metodi è l’unica via per un risultato scientifico. Ma nel Cinquecento magia e medicina, alchimia e scienze naturali, persino l’astrologia e l’astronomia, operano in una specie di simbiosi, dove si intrecciano in modo quasi inestricabile. Quindi ecco che l’uomo rinascimentale considera l’astrologia – di origine egizia e caldea – come un autentico sapere; l’universo come un essere vivente secondo i principi dell’ermetismo; la magia quale scienza dell’intervento sulle cose e sugli eventi al fine di dominarli; la cabala (che vuol dire “tradizione”) mistica ebraica che vede i fenomeni umani come specchio di quelli divini, ripresa da personaggi quali Pico della Mirandola; l’alchimia, la scienza della trasformazione dei metalli grezzi in prodotti finiti di grande utilità per l’uomo. La più importante figura di mago rinascimentale è senza dubbio quella di Paracelso (1493 – 1531). Theophrast Bombast Hohenheim, medico svizzero, mutò il suo nome in Paracelso, in quanto si considerava più grande del medico romano Celso. La rottura con la tradizione medica che contraddistinse la sua opera di rinnovamento, apparve evidente quando bruciò i libri delle autorità fino ad allora seguite: le opere di Galeno e il Canone della medicina di Avicenna. Sempre provocatoriamente dichiarò di essere debitore alle streghe almeno per una parte del suo sapere medico, investendo i metodi della medicina popolare di importanza e validità. Sarà attivo presso le miniere e le officine metallurgiche di Sigismondo Fugger, banchiere tedesco anch’egli alchimista, in Tirolo. Qui avrà l’opportunità di studiare le miniere, le caratteristiche dei minerali e le malattie dei minatori. Questa esperienza sarà estremamente rilevante nei suoi studi alchemici. Per Paracelso l’alchimia non era la scienza che potesse produrre l’oro o l’argento al fine di arricchire l’uomo; l’alchimia era una scienza di trasformazioni, comprendente tutte le tecniche chimiche e biochimiche. Nella sua ristrutturazione della medicina respinse la teoria degli umori e propose una nuova teoria del corpo umano, quale sistema chimico, dove un ruolo fondamentale è rivestito da tre elementi minerali: zolfo e mercurio (tradizionali principi dell’alchimia) e un terzo da lui aggiunto, il sale. Per Paracelso dunque la salute può essere ristabilita attraverso l’aiuto di medicinali di natura minerale, ponendo di fatto le basi alla farmacologia futura. Così, ad esempio, in base all’idea che il ferro è associato al pianeta rosso Marte e al Dio della guerra coperto di sangue, gli alchimisti capeggiati da Paracelso, somministrarono con successo sali di ferro agli anemici. La straordinaria mescolanza di teorie astrologiche, magiche ed empiriche nell’alchimia, produsse un avanzamento indiscutibile in ambito scientifico. Infatti, secondo il filosofo Paul K. Feyerabend, Paracelso è un innovatore che torna a idee anteriori migliorando la medicina nel suo complesso. Il compito del medico, secondo Paracelso, è saper indagare e conoscere i tre mondi che a suo avviso costituiscono l’uomo: il mondo esterno o fisico, il mondo interiore o astrale e il divino da cui nasce il potere di risanare. Fondamento della scienza medica è la conoscenza della natura come specchio dell’uomo e si rafforza con la fede in Dio assieme all’amore per le persone. Tra le teorie antiche Paracelso non respinse quella dei “quattro elementi” (tutta le realtà è strutturata dalla mescolanza di fuoco, aria, acqua e terra).

Di grande importanza sarà anche la conoscenza delle piante, basata sulla dottrina delle signature: ogni pianta sarebbe “segnata” nel proprio aspetto dalla funzione specifica che rendere possibile l’individuazione delle indicazioni e delle azioni terapeutiche. La signatura imprime alle piante nella forma, colore, odore e sviluppo il messaggio della funzione o azione (esempi potrebbero essere la polmonaria e la cardiaca). Paracelso, mediante le conoscenze alchemiche, introdusse nuove tecniche di estrazione dei principi attivi mediante tinture, decotti, essenze e distillati. Le sue intuizioni avranno un riconoscimento scientifico solo agli inizi dell’Ottocento – dopo i periodi bui della Controriforma e dell’avversione illuminista –, con l’isolamento dei costituenti attivi delle piante medicinali (ad esempio la morfina, la stricnina, la chinina, la caffeina, l’atropina). Di nostro interesse appare, in particolare, la Spagirica vegetale, ovvero l’applicazione dell’alchimia alla preparazione di tinture ed essenze ricavate dalle piante officinali. Nel termine stesso spagiria, di origine greca, sono contenute le parole “separare” e “dividere”, “collegare” e “unire”. Questi concetti costituiscono la base di ogni operazione alchemica. Lo studio e la pratica dell’alchimia arrivarono in Europa dall’Oriente, per merito degli arabi, e si amalgamarono alla tradizione cristiana. La preparazione spagirica, di cui Paracelso era maestro, non si limitava a tinture, infusi e decotti che sfruttavano solo una parte della pianta, bensì si estraevano i componenti (come i sali minerali, gli oli essenziali ecc.) per farne un uso più specifico. I tre principi dell’alchimia (zolfo, mercurio e sale), giocano un ruolo importante nella ricerca di una sinergia tra i componenti. Con l’affermarsi dell’atteggiamento materialistico e dei concetti chimici limitati, l’alchimia cedette terreno alle nuove scienze ma rimase ancora fiorente per buona parte del Seicento. I tre elementi dell’alchimia sono legati al concetto di disciplina iniziatica e rappresentano fondamentalmente dei simboli.

Il mercurio è il principio vitale, lo zolfo rappresenta l’anima e la coscienza, il sale il corpo e la materia. In erboristeria – o per meglio dire nella spagirica vegetale –, il mercurio è rappresentato dall’alcol etilico, ovvero il fuoco e l’acqua, un liquido chiaro e infiammabile. Si può ottenere dalle piante con il processo della fermentazione, seguito dalla distillazione. Durante la fermentazione la pianta si decompone con l’aiuto dei lieviti. Questo portatore dell’elemento mercurio, fondamentale nell’erboristeria, viene spesso chiamato dagli alchimisti semplicemente “mercurio”. Lo zolfo nel regno vegetale è rappresentato soprattutto dagli oli essenziali, ottenuti filtrando prima tutti i liquidi. Gli oli essenziali, a differenza del distillato alcolico “mercurio”, variano molto da pianta a pianta. Sono liquidi a temperatura ambiente, bruciano con fiamma fuligginosa e non si mescolano con l’acqua: vi galleggiano sopra e sono volatili. Il sale rappresenta il corpo delle piante; al contrario dello zolfo non è liquido né volatile e nemmeno combustibile. Il sale delle piante si ottiene attraverso l’incinerazione e la calcinazione. Esistono sali solubili (carbonato e solfato di potassio, carbonato di sodio) e sali non solubili (calcio, silicio, fosforo e magnesio). Per cui l’alchimista procede prima di tutto con l’estrazione dell’olio essenziale delle piante tramite l’ebollizione e la distillazione, ossia estrae la parte volatile e liquida dello zolfo. L’alcol “mercurio”, ottenuto con la fermentazione e la successiva distillazione – in grado di far perdere l’olio essenziale della pianta che in esso è solubile – si estrae successivamente. Per ottenere la parte fissa dello zolfo, quindi il sale, l’alchimista farà evaporare il liquido rimasto dopo la distillazione del mercurio. Questo liquido di colore scuro sarà la tintura.

Gli utensili utilizzati dagli alchimisti sono tanti e complessi: alambicchi, elmi metallici, caldaie, tubi di ogni genere che collegano complicate strutture, serpentine, recipienti e filtri. Da tutto ciò si potrebbe dedurre che l’alchimia sia la madre della chimica ufficiale, con le sue intuizioni e i suoi complessi metodi. Come detto in precedenza, l’astrologia è parte costitutiva dell’alchimia; per gli alchimisti esiste una relazione di tutte le cose terrene con gli astri, ovvero con il cosmo. In fondo questo approccio non è diverso dalle credenze del mondo contadino, dove si semina e pianta secondo la posizione degli astri (soprattutto la Luna), o dai vignaioli che imbottigliano quando la Luna è calante. Allo stesso modo l’alchimista raccoglie e classifica le piante officinali osservando i giorni e le ore planetarie.

Durante la preparazione delle tinture, essenze ecc., osserva i ritmi planetari e anche l’oroscopo completo. Paracelso sosteneva che “l’astro sarà curato con l’astro”, cioè con il favore o combattendo l’influenza negativa di un corpo celeste. I pianeti (sono inclusi il Sole che è una stella e la Luna che è un satellite) di base degli alchimisti tradizionali sono sette: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Sono divisi in “benefici” e “malefici”, in grado di legarsi all’azione delle piante officinali. Tanti furono gli alchimisti di rilievo anche in Italia: Gerolamo Fracastoro (1478 – 1553) medico, astronomo e poeta, grande amico di Copernico. Scrisse testi di notevole rilevanza sulle malattie contagiose, tanto da essere considerato il fondatore dell’epidemiologia. Gerolamo Cardano (1501 – 1576) professore di medicina, matematico e astrologo, celebre per la sua autobiografia De vita propria liber. Giovan Battista Della Porta (1535 – 1615) cultore di ottica, scrisse un libro noto anche ai moderni: la Magia naturalis sive de miraculis rerum naturalium, dove distingue la magia diabolica (magia nera) dalla magia naturale (magia bianca). In questo contesto culturale si inserisce la reazione cattolica alla Riforma protestante, atta alla salvaguardia della Chiesa e ad un suo rinnovamento dall’interno. Essa si esprime soprattutto in una condanna degli errori del protestantesimo e nella formulazione positiva del dogma cattolico. La Controriforma si manifesta anche in chiave fortemente restrittiva e costrittiva, con l’istituzione dell’Inquisizione romana nel 1542 e la compilazione dell’indice dei libri proibiti. Nel Concilio di Trento, tenutosi tra il 1545 e il 1563, si decise la posizione dottrinale nei confronti delle tesi protestanti, si impose un rinnovamento della disciplina della Chiesa e si diede precise indicazioni sul comportamento del clero e non solo. Infatti, nel Concilio si decise che tutte le pratiche e cure della medicina popolare dovessero essere bollate come superstitiones. L’arte medica si vietò ai chierici, agli ebrei e alle donne. Riguardo a questo punto, si ricorda che la donna pratica di erbe e cure, nel corso del Medioevo e anche del Rinascimento, aveva un certo riconoscimento sociale, vedi la posizione di Paracelso, ma dopo la Controriforma e il Concilio il connubio tra medicina dotta e popolare divenne oggetto di persecuzioni e colpì in modo particolarmente violento le guaritrici del popolo.

Le foto dei luoghi riguardano la Toscana (provincia di Pisa e Siena) e Cividale del Friuli.

 

Fonti bibliografiche:

Storia della Letteratura Italiana, G. Ferranti, Mondadori

OPERA, Accademia Italiana di Formazione Olistica – Corso di Fitoterapia del Dottor Fabio Bellino

La Scuola di Salerno, P. O. Kristeller, Centro Salernitano di Studi di Medicina medievale

L’influenza femminile nella medicina medievale, Gabriella Chmet, L’idea N°40/2000

Storia della Filosofia Vol. 4, G. Reale e D. Antiseri, Bompiani

Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi Vol. 2, G. Reale e D. Antiseri, Editrice La Scuola

Alchimia Verde, M. Junius, Edizioni Mediterranee